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articolo

Francesco Avallone

Diagnosticarsi un disturbo mentale per un follower in più

13 Luglio 2023

Com'è successo che la diagnosi psichiatrica da etichetta delicata sia passata a essere accessorio da indossare?

Negli ultimi anni mi è capitato spesso di imbattermi in profili Instagram la cui biografia, assieme all’età e ai pronomi con i quali si vorrebbe essere appellati, specifica una qualche diagnosi psichiatrica: disturbo bipolare, borderline, disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), autismo. Ai meme a tema salute mentale, nei quali si fa ironia su ansia, depressione, traumi, suicidio, si è accompagnata la diffusione di forme di attivismo da parte di influencer che si definiscono “neurodivergenti”, un termine ombrello che fa riferimento a coloro il cui cervello funzionerebbe in modo diverso da quello considerato tipico o normale. Su TikTok e Instagram impazzano video che iniziano con “soffri di ADHD se…” a cui seguono liste di comportamenti molto comuni: “ti distrai spesso”; “arrivi in ritardo ovunque”; “non riesci a concentrarti su qualcosa che trovi poco interessante”.

Mai come oggi la salute mentale e i suoi corollari – la discriminazione di chi è affetto da un disagio psichico, l’attenzione al trauma e alle sue ramificazioni nel tempo –  sono stati così in auge. Complice anche la paura dei postumi pandemici, siamo passati da un blando scetticismo nei confronti della psicologia all’ossessione per la cura della nostra mental health, ossessione che ha generato un’offerta sterminata di professionisti (e sedicenti tali) raggiungibili via app, innumerevoli approcci terapeutici di efficacia incerta, e infine la proliferazione di concetti psicologici prêt-à-porter che sono solo un calco sbiadito delle teorie complesse da cui originano: la teoria dell’attaccamento, appiattita su un determinismo privo di fondamenti scientifici; il narcisismo, che da disturbo della personalità grave e relativamente raro, pare affligga tutti coloro che ci hanno rifiutati. 

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La nascita di criteri diagnostici nella prima metà del Novecento crea un codice che permette agli psichiatri e psicologi di comunicare tra loro e culmina con la prima edizione del DSM – Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – negli anni Cinquanta.  Già allora emergeva una certa instabilità delle diagnosi: capitava spesso che un paziente ricevesse diagnosi diverse a seconda dello psichiatra che lo visitava, e queste diagnosi erano motivo di vergogna ed emarginazione per chi le riceveva. 

Più tardi, verso la fine degli anni Sessanta e Settanta, nascono i movimenti di pazienti psichiatrici che tentavano di riaffermare sé stessi, ribellandosi a un sistema sanitario che consideravano oppressivo, abusante, infantilizzante, senza però rinnegare la propria disabilità: il loro obiettivo era auto-organizzarsi al fine di diventare più consapevoli e di avere accesso ai migliori trattamenti possibili. Altri, invece, erano consapevoli di non essere malati, come accadde in Italia a coloro che hanno preso parte alle battaglie del FUORI! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), il movimento di liberazione omosessuale che negli anni Settanta protestava fuori i convegni di sessuologia e contro la psichiatria con il fine di depatologizzare l’omosessualità, che venne eliminata dal DSM nel 1987. 

La diagnosi, dal greco “conoscere attraverso”, può  rappresentare un punto di partenza per migliorare la propria condizione, come argomentato da Vittorio Lingiardi in Diagnosi e destino (Einaudi, 2018). Consapevole dello scetticismo che la psicoanalisi tradizionale mostra nei confronti del concetto stesso di diagnosi (la critica più comune: l’eccessiva schematicità dei manuali diagnostici), Lingiardi propone da un lato di riconoscere l’importanza della diagnosi come momento di svolta, occasione per conoscersi e cambiare; dall’altro, di considerare il rischio di ridurre la persona a un’etichetta: difficilmente le liste di sintomi elencate dai manuali coincidono con la persona reale che chiede aiuto. 

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Nonostante l’apparente interesse per la salute mentale, ci troviamo di fronte a una crisi della stessa che riguarda tutto l’Occidente. Jonathan Haidt e i suoi colleghi riportano una diminuzione significativa del benessere psichico, con un conseguente aumento di ansia, depressione, e autolesionismo, specialmente tra ragazze adolescenti a partire dal 2012. Cosa può mai essere successo alle ragazze nel 2012? La risposta più convincente, quella che sbaraglia i postumi del 2008 e le sparatorie scolastiche, riguarda l’utilizzo di smartphone e social media, gli stessi su cui si ripete all’infinito quanto sia importante prendersi cura della propria mental health: le piattaforme generano gli stessi sintomi che pretendono di affrontare. Non solo. La salute mentale vacillerebbe di più tra le giovani liberal di sinistra.

Haidt e il suo collega, Greg Lukianoff, parlano di “terapia cognitivo-comportamentale al contrario”. La terapia cognitivo-comportamentale, utile per trattare ansia e depressione, ha l’obiettivo di individuare e modificare pensieri e comportamenti che generano sofferenza, come visioni del mondo manichee o catastrofiche, paranoia, perfezionismo, che sono al tempo stesso sintomo e causa del malessere di molti pazienti. 

Secondo Haidt e Lukianoff il clima di soffocante progressismo che avviluppa i social e che mostra una società costituita da oppressi e privilegiati, in cui gli eventi sono al di fuori del proprio controllo, e dove il disaccordo è pericoloso, suscita sentimenti angoscianti e favorisce un pensiero binario che diviene causa e sintomo di disagi mentali. 

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Clementine è un’amica canadese. Scrive di traumi, relazioni poliamorose, e cancel culture, e racconta che quando era immersa nella cultura progressista virtuale si aspettava il peggio dalle persone, prendeva tutto sul personale e non concedeva il beneficio del dubbio a nessuno, etichettando come aggressori tutti coloro –  perlopiù sconosciuti – che non erano a conoscenza dei suoi bisogni o dei suoi pronomi. 

La visione del mondo adottata da Clementine è la stessa che sposano milioni di ragazze in Occidente, Italia inclusa. Le ragazze sono più vulnerabili dei ragazzi allo sviluppo di disturbi mentali, soprattutto quelli legati all’immagine corporea. Se a questi fattori si aggiunge un maggiore utilizzo dei social media, che sono basati su competizione, performance, e confronto costanti (considerando anche quanto rappresentino un’occasione per diventare vittime di umiliazione pubblica), ecco spiegato il peggioramento della salute mentale osservato in questa categoria nell’ultimo decennio. 

Certo, si potrebbe obiettare che sia la realtà a rendere depresse le giovani progressiste: cambiamento climatico, disuguaglianze economiche e sociali, razzismo e pregiudizi vari, insomma tutti quei problemi di cui siamo consapevoli. Eppure i dati dimostrano il contrario: è la depressione a far apparire terribile la realtà, perché fa elaborare gli eventi ambigui in modo negativo.

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Malgrado le buone intenzioni che animano la divulgazione online sulle questioni legate alla salute mentale, sono numerose le contraddizioni in materia, soprattutto quando il racconto del disagio mentale entra in conflitto con la manifestazione sintomatologica dello stesso. 

Forse il caso mondiale più rilevante riguarda il rapper Kanye West, che di recente si è espresso sui suoi account social con post deliranti esplicitamente razzisti e antisemiti. West soffre di disturbo bipolare, che causa disinibizione e comportamenti impulsivi e antisociali. In pochissimo tempo West ha perso diversi contratti e si è trovato completamente isolato. Cosa ci mostra tutto ciò? Che in primo luogo vi è una scarsa comprensione del modo in cui possono manifestarsi i disturbi mentali. La malattia mentale è destigmatizzata finché conviene, finché è un vezzo eccentrico da sfoggiare sui social. La verità, come spiega bene lo scrittore Freddie deBoer, è che le malattie mentali sono “sgradevoli, tristi, disgustose, scoraggianti, destabilizzanti, minacciose, estenuanti, brutte e sicuramente non politicamente corrette”.

La psicosi può portare le persone a creare teorie del complotto, come appunto quelle antisemite sostenute da West. Un’altra faccenda interessante del caso West è che fa esplodere la morale progressista manichea, che vede gli oppressori da una parte e gli oppressi dall’altra. Se consideriamo coloro che soffrono di disturbi mentali come una minoranza da proteggere, e siamo convinti che le minoranze siano ontologicamente oppresse e che non possano far del male, ne deriva che West non meriti la nostra comprensione. Ma riconoscere il ruolo che la malattia mentale gioca nel determinare alcuni comportamenti non implica esonerare qualcuno dalle proprie responsabilità morali o legali. Tuttavia ci porta a realizzare che la salute mentale non è “esteticamente gradevole”: “Trascorrere del tempo in una struttura psichiatrica significa sentire la ‘parola-con-la-N’, incontrare persone che hanno commesso violenze domestiche, confrontarsi con le molte forme di disgregazione della razza umana. Non è un film. […] Non assomiglia a Tumblr”, scrive deBoer, che prosegue puntando il dito verso i discorsi sullo stigma che finiscono per mancare il bersaglio, a dispetto della salute e della sicurezza di coloro che vivono con un disturbo mentale. 

Viene considerato discriminatorio chiamare l’autismo un disturbo, nonostante spesso renda le persone incapaci di svolgere attività quotidiane o di badare a sé stesse; o ancora suggerire che le persone con disturbi psicotici siano propense a commettere atti di violenza

Pensando di far bene ai pazienti psichiatrici, si finisce per banalizzare la malattia mentale, epurandola delle sue storture e finendo per fare un disservizio a chi ne soffre, che viene infantilizzato – un’accusa un tempo mossa alla psichiatria; oggi invece sembra essere la prerogativa di un certo tipo di attivismo ingenuo.

Anche il termine “neurodivergenza” risulta poco utile, essendo talmente ampio da includere nella stessa categoria persone con lieve ADHD ed altre che si trovano a convivere con autismo grave. Inoltre alcune diagnosi riguardano disturbi ad ampissimo spettro: lo stesso autismo include persone che vivono con sintomi molto lievi o trascurabili, e altre con problemi seri legati alla funzionalità sociale o lavorativa. Ci si chiede dunque quanto abbiano in comune coloro che si scoprono autistici in età avanzata (in che modo poi? Andando a caccia di diagnosi finché non si incontra uno psichiatra disposto a diagnosticare, o cercando i propri sintomi su Tiktok?) e una persona autistica che ha difficoltà a comunicare o interagire con gli altri sin dalla prima infanzia.

“Ciò che trovo tragico in coloro che aderiscono alla narrazione della neurodivergenza è che finiscono per diventare la loro malattia”. 

deBoer aggiunge anche che un’alternativa a tutto ciò è possibile: soffrire e basta, senza farne un’identità, senza “impacchettare la sofferenza in modo Instagram-friendly”. Ciò implicherebbe accettare che il dolore non ci rende speciali o migliori – talvolta proprio il contrario. 

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Clementine, l’amica di cui scrivevo prima, negli anni ha raccontato spesso di vivere con disturbo post traumatico da stress complesso (C-PTSD) causato dai numerosi eventi traumatici che ha vissuto. Clementine ha avuto effettivamente una vita difficile, fatta di abusi e alcolismo, ma a me è sempre sembrata una persona forte, coraggiosa, piuttosto che “traumatizzata”. È dopo un’esperienza più che positiva con l’ayahuasca che Clementine ha raccontato di aver smesso di identificarsi come vittima: “Finalmente vedo che la storia dei miei traumi non è la storia della mia vita. È parte della mia vita, ma non mi definisce.”

C’è forse un contesto in cui può essere utile attaccarsi ad un’etichetta, o almeno sembra esserlo per molte persone. Sempre da Clementine, che ha avuto problemi di alcolismo fino ad una decina di anni fa, ho imparato che coloro che partecipano agli Alcolisti Anonimi (AA) tendono a continuare a definirsi “alcolisti” o “tossicodipendenti” anche dopo anni di sobrietà. AA è un’associazione (non esente da critiche e controversie) con una forte base spirituale che offre aiuto a persone con problemi di dipendenza da alcol. Una volta le ho chiesto perché si definisse ancora “alcolista” dopo undici anni di sobrietà. Lei mi ha risposto che si definisce una “alcolista-sobria” (o anche “alcolista in via di guarigione”). Serve a evitare una ricaduta: se si avvicinasse di nuovo a dell’alcol o a qualsiasi altra sostanza non finirebbe bene. Per il resto, con gli AA si tende a guardare in avanti, piuttosto che a restare bloccati nel vittimismo – a contare sono le azioni che si mettono in pratica per cambiare, ciò che si fa della propria vita. Ed è proprio tramite gli AA che Clementine ha imparato quei valori di compassione radicale che sono alla base della sua nuova visione politica: le stesse persone marginalizzate e malate di mente che si vuole difendere sui social spesso sono lontane dall’essere moralmente impeccabili. Sostenere i diritti delle minoranze implica anche confrontarsi con le complessità dell’esperienza umana.

 

Tanti di noi hanno trovato in internet e nei social una via di fuga, uno spazio in cui potevamo essere gay, trans, queer in un mondo che ci tollerava malvolentieri. In quello spazio, che da nicchia si è fatto mainstream, si sono insinuate diverse tendenze: rifiutare il dissenso, bandire il compromesso, aggrapparsi tenacemente alla propria identità – di minoranza, neurodivergente, survivor, bipolare – in una continua performance per i propri follower. Il sospetto è che la soluzione sia molto semplice: lasciarla andare, questa identità.

Francesco Avallone

Francesco Avallone è ricercatore e dottorando in Family Medicine alla McGill University di Montreal.

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