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Mimmo Cangiano

La destra ha la sua cultura e vuole che sia anche la tua

Quando pensiamo alla cultura della destra ci vengono in mente concetti vaghi come tradizione, ordine, patria. Le cose, però, sono più complesse di così. La destra al potere sembra avere un disegno culturale preciso: farci credere che il capitalismo sia il sistema migliore in cui vivere.

Quanto reggono le interpretazioni della cultura di destra che non tengono conto del rapporto che questa intrattiene col capitalismo?

Nei suoi Quaderni del carcere, a un certo punto Gramsci riflette sul curioso rapporto che c’è tra la filosofia di Giovanni Gentile e il passaggio, durante il fascismo, del capitalismo italiano al sistema fordistico. 

“È curioso che all’americanismo non si cerchi di applicare la formuletta di Gentile della “filosofia non si enunzia in formule ma si afferma nell’azione”; è curioso e istruttivo, perché se la formula ha un valore è proprio l’americanismo che può rivendicarlo. Quando si parla dell’americanismo, invece, si trova che esso è meccanicistico, rozzo, brutale […] e gli si contrappone la tradizione.”

C’è uno strano legame, ci avverte Gramsci, tra la formula gentiliana, fatta propria dall’ideologia fascista, e il fordismo. Le critiche che gli intellettuali del PNF muovono allo sviluppo di stampo americano (meccanizzazione, razionalizzazione, disconnessione dei legami socio-comunitari, cosmopolitismo in luogo delle identità nazionali, ecc.) sono parte di un modo di ragionare che però ha già, almeno sul piano metodologico, assorbito le modalità operative del nuovo modo di produzione. Il pensiero di destra, insomma, può parlare di tradizione, di religione, di forti legami sociali, di etnia, ma le modalità attuative del modo di produzione fordistico sono già penetrate in esso.

Se il pensiero si fa nell’azione, e della sua correttezza si decide attraverso i risultati ottenuti dall’azione, i mezzi prendono il sopravvento sui fini, vale a dire che è il risultato stesso a decidere della correttezza o meno del pensiero. La ragione è cioè diventata strumentale. Il suo valore viene misurato dalla capacità di raggiungere, mediante prassi, lo scopo presupposto. 

Seguono da questo punto due conseguenze: 1) gli assi portanti e tradizionali del pensiero della destra (identità culturale, etnicizzazione, mito della comunità nazionale) diventano funzionali sì al silenziare, nella prospettiva nazionalistica, ogni tipo di opposizione, ma con l’obiettivo di portare il capitalismo italiano nella modernità fordistica; 2) l’alternativa anti-capitalista del fascismo non può essere presa sul serio, perché anche i suoi pensatori più autorevoli, come Gentile, teorizzano secondo le nuove logiche della produzione. Le ragioni del capitalismo possono essere servite, insomma, pur mentre si parla di tradizione, comunità, identità. 

Alcuni decenni dopo Furio Jesi, autore di uno dei primi studi dedicati a un’analisi della destra intellettuale europea, sosterrà qualcosa di simile. I “miti” elaborati dalla cultura di destra (l’idea di Julius Evola secondo la quale il mondo decade a causa di un allontanamento progressivo dalla sfera del trascendente, la Controriforma – con i suoi dogmi e la sua disciplina – come nucleo della coscienza degli italiani in Curzio Malaparte, ecc.) non sono miti ma “macchine mitologiche”: il loro scopo non è la ricerca della verità, ma quello di selezionare e manipolare il materiale storico-culturale a disposizione per ricercare, soprattutto, il consenso.

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Quando si parla di cultura di destra noi pensiamo istintivamente ai grandi assoluti, alle grandi essenzializzazioni, alle lettere maiuscole tipiche di un potere sclerotizzante, ma alla base della lezione di Jesi c’è appunto la coscienza secondo cui questi assoluti sono abitati dalla ragione strumentale, cioè dalla possibilità di essere continuamente modificati per servire scopi a loro volta mutevoli, funzionali al mantenimento di un’egemonia culturale. I miti della cultura di destra, questo il centro della lezione di Jesi, sono strumenti diretti a scopi precisi, e come tali (era anche il punto di Gramsci) non ricercano la verità, ma il risultato. Non sono verità, ma strumenti, pronti all’uso.

Un volumetto dello storico francese Johann Chapoutot, uscito pochissimi anni fa e intitolato Nazismo e management, ha dimostrato, andando ad analizzare piani di produzione, direttive aziendali, verbali di riunione, quello che Gramsci e Jesi avevano solo potuto intuire.

Nessuna meta-narrazione, nessun principio fisso, nessuna fede, nessun fondazionalismo socio-culturale, ha guidato il sistema produttivo nazista. Alla sua base vi sono stati esclusivamente principi di efficienza, e la sua unica fede è stata la riduzione di ogni elemento contingente (elemento umano incluso) a fattore di produzione. Ogni teoria generalizzante avrebbe infatti rischiato di intralciare quei criteri di efficienza che sono tali, come scrisse un industriale metallurgico, “quando possono riformularsi continuamente su principi empirici, pragmatici, mutevoli, in divenire”.

La logica della produzione nazista, per come descritta da Chapoutot, somiglia molto a quella del nostro capitalismo neoliberale, alla sua capacità di autolegittimarsi a partire da principi e scopi instabili e variabili. Per lo storico, il capitale nazista, come quello neoliberale ha il solo scopo di riprodurre se stesso, e a tal fine riformula continuamente le proprie ideologie di riferimento.

“Il loro scopo non è la ricerca della verità, ma quello di selezionare e manipolare il materiale storico-culturale a disposizione per ricercare, soprattutto, il consenso”.

Finché le logiche culturali non contrastano con le modalità della sua riproduzione, il capitale può fare affidamento tanto sulle norme tradizionali quanto su quelle che per decenni gli sono state meno congeniali: può rafforzare autorità locali e tradizionali o insistere sull’ideologia cosmopolita e transnazionale, può favorire la persistenza di visioni patriarcali, razziste e etero-normate così come favorire il superamento delle sfere prescrittive, può flirtare con la religione (si pensi alla Polonia di Kaczynsky) o liberarsene come un alleato ormai scomodo (in tutti i paesi occidentali ormai i supermercati sono aperti anche la domenica), e così via.

Se concepiamo il capitale a partire dal suo scopo fondamentale, riprodurre se stesso, è chiaro che la sua logica può andare alternativamente in tutte le direzioni, salvando però sempre la propria capacità di ragionare strumentalmente, cioè la propria capacità di fare di ogni posizione ideologica (anche di quelle che parlano di “tradizione”, “comunità”, ecc.), una merce da utilizzare al fine di proteggere il modo di produzione.

Le sue narrazioni sono mutevoli proprio perché, e torniamo a Jesi, la sua logica (quella produttiva come quella tesa verso il profitto), consiste appunto nel negare ogni forma di fine (religioso, etico, regolativo, normativo), in favore di un principio di utilità strumentale.  Rilevare che il “mito”, così come inteso dalla cultura di destra, è merce, serviva a sottolineare che la razionalità strumentale stava già invadendo anche i modi di produrre cultura.

Le lezioni di Gramsci, di Jesi e di Chapoutot sono a mio giudizio fondamentali per aiutarci a mettere fuoco l’operato corrente delle destre di governo e di opposizione, destre che non parlano più, naturalmente, di superamento del sistema capitalistico, ma che tuttora sono impegnate a veicolare, a livello puramente ideologico (a livello pratico supportano le Flat Tax), certe misure protettive finalizzate (si pensi alle resistenze sul MES) a mantenere la comunità nazionale al riparo da quelli che vengono intesi come gli effetti più deleteri del capitalismo all’epoca della globalizzazione post-fordista – si pensi anche, a livello culturale, alla battaglia contro i temi che emergono dalle Culture Wars, cioè da un capitalismo, quello americano, più avanzato.

In tal senso è ad esempio riemerso (soprattutto nell’Est europeo) il mito di uno Stato forte che fa da baluardo contro la deregulation, ma che si impegna in battaglie, come quella sull’immigrazione, che considerano negativamente solo quei portati della globalizzazione che coinvolgono i processi “dal basso”, e non quelli che sono al cuore del postfordismo stesso. Insomma, in Italia ci si può battere contro i flussi migratori ma non a favore di una legge contro la de-localizzazione industriale o contro l’Airbnbizzazione

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Tale doppio binario, intimamente contraddittorio se prendiamo sul serio la volontà programmatica delle destre di difendere le proprie comunità nazionali di riferimento, è però estremamente efficace a livello di propaganda ideologica, perché, mentre rassicura e lascia al capitale amplissima libertà d’azione, tranquillizza e aizza continuamente il proprio elettorato di riferimento (istinto identitario, critica ai processi di modernizzazione incontrollata, difesa dell’identità culturale, difesa degli apparati repressivi, critica alle Culture Wars, ecc.).

In questo modo i processi “lacrime e sangue” del postfordismo non vengono negati – l’immiserimento di questo paese, così come l’allargarsi della forbice sociale, è del resto troppo evidente e la vecchia ideologia nazionalista non basterebbe a occultarlo –, ma vengono addossati ad alcuni effetti, politico-socio-culturali, del postfordismo stesso, invece che all’operato del capitale. 

Ciò permette alla destra di mantenere costantemente un volto bifronte, di lotta e di governo, arrivando addirittura (questa non è una novità) a presentare la costruzione della propria egemonia culturale, ad esempio l’occupazione di scranni ai vari livelli della piramide socio-politico-culturale, dalla Rai alla Biennale, passando per archivi e musei, come resistenza alla modernità postfordista, al  cosmopolitismo, alle “mode” culturali di derivazione straniera. E in questo senso, l’occupazione di scranni non risponde solo a un generico intento di “non fare prigionieri”, ma è funzionale alla costruzione di una cultura (anche di massa) che metta al centro un comparto di valori corrispondenti a un presunto ethos nazionale.

La destra sta cioè costruendo la propria egemonia culturale (vale per l’Italia come per l’Ungheria che distrugge le statue del “sovietico” anti-ungherese Lukács) mediante un’identificazione fra le sue tematiche tradizionali e il Paese di riferimento. La veicolazione della sua ideologia non viene cioè presentata come “di parte”, ma come intimamente connessa alla cultura, pensiero, modo di vivere (e persino di mangiare, se si pensa ad alcune polemiche recenti) del paese stesso. 

“Quando si parla di cultura di destra noi pensiamo istintivamente ai grandi assoluti, alle grandi essenzializzazioni, alle lettere maiuscole tipiche di un potere sclerotizzante”.

Un esempio paradigmatico di tale processo è visibile nella costruzione della propria stessa linea di discendenza politico-culturale: mentre infatti da un lato la destra tollera i processi di atomizzazione e di disgregazione sociale per come connessi al tradizionale operato del capitale (cultura dell’individualismo, visione del cittadino come consumatore) legandosi pragmaticamente alla classica stagione reaganiana, dall’altro lato crea una propria virtuosa archeologia culturale intesa tanto nella tradizionale chiave dell’esaltazione e difesa dell’italianità, quanto, ed è forse anche più preoccupante, come opposizione a processi di modernizzazione che avvengono al di fuori del controllo dello Stato nazionale.

Mi spiego meglio: sin dagli anni ’50 la destra ha creato una propria linea di discendenza (rifacendosi in particolare al liberalismo conservatore di autori quali Prezzolini, Longanesi, tra gli altri) da opporre alla cosiddetta egemonia culturale della sinistra, staccandosi in questo senso da tutti quegli intellettuali percepiti come troppo compromessi (Soffici, Papini, Corradini, ad esempio).

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Solo recentemente però, e servendosi di quegli stessi appelli alla “pacificazione storica” che venivano, negli anni Zero, da sinistra, la destra ha cominciato ad arruolare tra le proprie fila tutta una serie di personaggi (Gobetti, addirittura Gramsci, e molti altri) che ideologicamente le sarebbero agli antipodi.

Lo scopo è naturalmente quello di creare una tradizione di “grandi italiani”, piegando le differenze ideologiche, tratto tipico del vecchio nazionalismo, a quelle nazionali. Ciò però produce in questo momento storico un doppio effetto: da un lato rafforza quell’operazione egemonica mirata alla sovrapposizione fra valori ideologici della destra e valori del paese, dall’altro il recupero di questi intellettuali avviene sia mediante l’eliminazione delle componenti economiche del loro discorso, sia mediante lo stravolgimento del ruolo che essi danno allo Stato nel controllo dei più vasti processi socio-economici. Questo assunto è del resto centrale proprio rispetto alla peculiarissima formazione della destra italiana, una destra che ha da sempre insistito molto più sul ruolo dello Stato che non su quello del Volk, ‘il popolo’

“L’occupazione di scranni non risponde solo a un generico intento di ‘non fare prigionieri’, ma è funzionale alla costruzione di una cultura (anche di massa) che metta al centro un comparto di valori corrispondenti a un presunto ethos nazionale”.

Il senso più profondo di tale operazione è dunque, nuovamente, di lotta e di governo: ribadire il principio di uno Stato che difende i cittadini dagli effetti più deleteri dello sviluppo globale ma, allo stesso tempo, allontanare dal quadro di analisi lo sviluppo globale stesso, cioè i processi economici postfordisti in corso. E naturalmente la sinistra, anch’essa ormai assuefatta al thatcheriano “there is no alternative”, non riesce a reagire con forza a tale operazione, perché l’unica risposta possibile sarebbe quella… “economica”:  che metterebbe in discussione il capitalismo, se non nei suoi fondamenti, quantomeno nel suo funzionamento corrente. 

In questo processo si crea un paradosso davvero curioso che però è fondante nella creazione dell’egemonia: la destra comincia ad apparire come un’articolazione ideologica che riesce al tempo stesso a rassicurare certi strati della popolazione mediante generali principi di fedeltà al modello liberal-capitalistico (ad esempio ribadendo la ferma posizione nel campo Atlantico) e a presentarsi invece, ad altri strati, come forza contestativa diretta (ribadendo così  ideologicamente il principio del primato del politico sull’economico) a difendere il “comparto nazionale” – secondo un modello che tiene insieme, armonicamente e corporativamente, capitale e lavoro – dagli effetti globali del capitalismo neoliberale. In tal modo, e in ciò perfettamente in linea con la tradizione della destra novecentesca, riesce a veicolare il sociale (difesa dei salari, difesa del comparto produttivo: si pensi ad esempio al recente “patto anti-inflazione”) come un elemento del nazionale, così facendo della sua tradizionale difesa dei principi identitari un ganglio centrale di una lotta che appare anche diretta al miglioramento socio-economico delle condizioni di vita dei cittadini. 

In questo modo quelle che sono lampanti contraddizioni ideologico-materiali del sovranismo contemporaneo (dentro e fuori l’Unione europea, pro e contro il capitale neoliberale, pro e contro il principio della tassazione progressiva, ecc. ecc.) smettono di apparire come contraddizioni e risultano come momenti giustapposti di un’ideologia in fondo coerente. Da qui l’egemonia può svilupparsi.

Mimmo Cangiano

Mimmo Cangiano è Professore di Critica letteraria e Letterature Comparate presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il suo ultimo saggio si intitola Cultura di destra e società di massa, Europa, 1870-1939 (Nottetempo, 2022)

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